giovedì 9 gennaio 2014

Intervista a Leone su Nando Poletti


D.  Caro Leone, io so che tu avevi dei buoni rapporti con un noto squadrista fascista di Cibeno. So che si chiamava Poletti. Mi tenne alla cresima e mi regalò un orologio. So che dopo la fine della guerra andava dicendo che l’unico che non aveva avuto paura di parlargli e di aprirgli gli occhi sul fascismo eri stato tu. Mi racconti tutta la storia?
R. Io ho conosciuto poletti nel 1940, quando con la famiglia ci trasferimmo nel Caseificio Crotti a Cibeno di Carpi per sostituire mio fratello Duilio, chiamato alle armi. Essendo in continuo contatto con i soci del caseificio, che venivano a conferire il latte, cominciai subito a fare propaganda contro il fascismo e contro la guerra. Molti condividevano le mie idee e speravano in cuor loro nella sconfitta del nazismo e nella fine della guerra. Fra le persone che frequentavano il caseificio c’era anche Nando Poletti, che allora era custode del poligono di tiro di Cibeno, diventato poi tristemente famoso per la fucilazione dei 67 internati nel campo di concentramento di Fossoli.  Era temuto nella zona sia per il suo passato di squadrista del 1921 che per il suo ruolo di sorvegliante  pronto, si diceva, a denunciare qualsiasi persona sospetta di propaganda contro il fascismo e contro la guerra. I contadini dunque, conoscendo il Poletti, mi misero subito in guardia. Il Poletti che, fra l’altro, non era nemmeno un socio del caseificio, inspiegabilmente veniva tutte le sere a prendere un litro di latte, invece di andarlo a prendere dal lattaio che vendeva il latte per uso alimentare.
   Comunque, fatte le presentazioni, anziché dare ascolto alle raccomandazioni che mi erano state fatte, presi il toro per le corna ed incominciammo a parlare del fascismo e della guerra in corso, ciascuno mantenendo le proprie opinioni. Per farti comprendere il clima che si respirava in quel periodo ti voglio raccontare un episodio.
Di sera io uscivo di rado. Una sera andai all’osteria prima delle 20. Faceva freddo ed io, tutto avvolto nel mio tabarro, mi misi a sedere tranquillo. Alle 20, quando incominciò il giornale radio con il bollettino di guerra, tutti i presenti si alzarono in piedi, come da prescrizione. Solo io rimasi seduto. Al termine del giornale radio, l’oste, che gestiva anche il negozio di alimentari di cui eravamo clienti, mi disse che Poletti era solito guardare dalle fessure delle finestre e che lui, come gerente avrebbe potuto avere delle brutte conseguenze per non aver fatto rispettare questa norma. Io allora mi scusai con l’oste e non andai mai più al negozio durante il giornale radio.
   Il Poletti era stato anche il sorvegliante di Verzani Fausto, uno zio di mia moglie, che era stato condannato dal Tribunale Speciale, prima al confino e poi a molti anni di carcere per  attività antifascista. Uscito dal carcere era venuto ad abitare  in Via Provinciale Motta, dove lavorava  un piccolo podere a mezzadria. Per uscire di casa doveva ottenere l’autorizzazione del Poletti con l’indicazione anche della durata dell’assenza.
   Tornando comunque ai miei rapporti con Poletti io debbo dire che le nostre discussioni continuarono senza conseguenze.
Una mattina, eravamo verso la fine del 1943, trovai il Poletti in piazza a Carpi. Era in compagnia di un mediatore di formaggi, simpatizzante fascista. Stavano discutendo sulla battaglia in corso a Stalingrado e dicevano che la guerra era ormai vinta. Io arrivai e dissi loro che erano degli illusi, che la guerra avrebbe avuto una svolta negativa proprio sul fronte russo. Mentre stavamo discutendo, mi passò di fianco un mio amico di Migliarina, un certo Santini ed io molto imprudentemente lo coinvolsi nella discussione. Egli, che era appena uscito dalla macelleria con pochi etti di carne acquistata con la tessera, cominciò ad inveire contro il fascismo e contro la guerra. Io mi resi conto subito del mio errore, ma non sapevo più come rimediare. La situazione si era fatta pesante. Poletti gli intimò di smetterla e di andarsene se non voleva che lo prendessero a calci nel culo. Non lo aveva ancora fatto solo per rispetto verso di  me. Egli si allontanò, ma ebbe il coraggio, prima di andarsene di dirgli che la cosa non finiva lì. “Ci incontreremo ancora” gli disse.
Come io avevo previsto le sconfitte cominciarono sul fronte russo e proseguirono poi su tutti gli altri fronti. A seguito di questa nuova situazione internazionale, della fucilazione dei 67 deportati, dell’inasprimento della lotta partigiana, e  anche per salvare la pelle Poletti cominciò a cambiare rotta.
Nel gennaio del 44, a seguito dell’arresto di un partigiano che trasportava carne soggetta al vincolo alimentare dei tedeschi, fu necessario nascondere alcuni quintali di carne di maiale che era stata macellata nel caseificio Crotti e che doveva servire a sostenere i partigiani ed i loro familiari. Il comando partigiano ritenne che il posto più sicuro fosse la casa del Poletti al poligono di tiro. La carne gli fu portata di sera da partigiani  mascherati ed armati con l’obbligo di custodirla per conto del movimento partigiano. Il Poletti prese la carne, ma il mattino successivo si presentò a casa mia e chiese di parlarmi. Mia moglie disse che io ero assente e che non ero rintracciabile. Ero infatti ricercato dalla Brigata Nera proprio per la macellazione clandestina della carne sottratta alle razzie tedesche. Allora raccontò a mia moglie che durante la notte i partigiani gli avevano portato parecchi quintali di carne di maiale, che non sapeva come fare e che temeva di venire scoperto dai fascisti e dai tedeschi. Mia moglie si finse stupita e chiese spiegazioni sulle ragioni per le quali si rivolgeva alla nostra famiglia per un problema grave me che riguardava solo lui. Risposta: perché la carne mi è stata portata con vostro carriolo e quindi voi ne sapete qualcosa.
Mia moglie allora senza scomporsi gli ha fatto una domanda. Come hanno fatto i partigiani a consegnarvi la carne? E lui: “Ma è chiaro. Con le armi in pugno”. Ebbene, dice Maria, anche il nostro carriolo l’hanno preso così. Quindi se vi scoprono diremo tutti come sono andate le cose. E speriamo che non succeda niente.” E le cose andarono veramente bene. La carne non fu scoperta e contribuì alla sopravvivenza dei partigiani in quel terribile inverno che precedette la liberazione.
Durante il periodo della mia latitanza io ebbi l’incarico di formare il Comitato di Liberazione per le frazioni di Cibeno e San Marino di Carpi. Quando mi spostavo avevo due staffette che mi precedevano per evitarmi degli incontri spiacevoli. Un pomeriggio, dopo una grandissima nevicata, dissi alle staffette che volevo andare a casa. Appena giunto davanti alla porta di casa, mi vide mia figlia Emilia, che allora aveva appena due anni. Non fece nemmeno in tempo a dire “C’è il babbo” che arrivarono le staffette e mi dissero di nascondermi perché la Brigata Nera stava inseguendo due persone in bicicletta, che si dirigevano dalle nostre parti. Fuggire era impossibile. Fuori non c’era dove nascondersi. Chiesi a Sassi, il contadino che abitava di fianco al caseificio, di nascondermi nel rifugio sotto alla greppia nella stalla. Entrammo nel rifugio io e Wilson Sassi. I due che fuggivano entrarono nel cortile di Sassi. Uno prese un’accetta, salì su un albero e cominciò a potare. L’altro entrò in casa e cominciò a contare delle uova. I fascisti arrivarono, ma non trovarono niente di irregolare. Cominciarono a sparare all’impazzata, spaventando i bambini. Uno dei fratelli Sassi, che conosceva qualcuno dei brigatisti disse che lì non c’era nessuno dei ricercati e li convinse ad andarsene. Noi due, impotenti dentro al rifugio, vivemmo le pene dell’inferno. Io sentivo le urla dei bambini e gli spari, ma non sapevo cosa stava succedendo. Avrei voluto uscire per intervenire, ma ero impotente. Fu un’attesa interminabile. Il silenzio dopo la partenza dei fascisti era terrificante. Quando finalmente uscimmo dal rifugio io dissi a mia moglie che a casa non sarei mai più tornato fino alla fine della guerra. Dovevo tornare alla mia base, ma a piedi non ce l’avrei fatta. Ci rivolgemmo a Poletti che mi caricò sul suo biroccino e mi portò al mio rifugio.
Ormai era a conoscenza di tutto e collaborava con i partigiani. Addirittura diede rifugio a mia cognata dopo che i fascisti ci avevano bruciato il caseificio di Quartirolo e quando mio fratello Alfredo era latitante.
Qui io potrei terminare il mio racconto su Poletti e di come, da squadrista divenne collaboratore del movimento partigiano. Ma per onestà intellettuale voglio raccontare ancora un episodio. Due partigiani di san Marino, conosciuti come i figli della Iana, verso la fine della guerra, vennero da me e mi dissero che stavano andando ad ammazzare Poletti. Io mi opposi perché, in base alla disposizioni del C.L.N, non si dovevano fare azioni contro chi collaborava con i partigiani o si manteneva neutrale. A guerra finita sarebbero stati giudicati per gli eventuali crimini commessi durante il fascismo. Convocai il comitato e riuscimmo a fermarli. Però bisogna pur riconoscere che la giustizia che i partigiani avevano invocato non si vide mai.
Terminata la guerra mio fratello rientrò dalla prigionia ed io con la mia famiglia mi trasferii al caseificio Tresinaro a Quiartirolo di Carpi. Non ebbi più molte occasioni di incontrarlo, salvo qualche breve saluto in piazza a Carpi. So che fu licenziato dal poligono di tiro dove svolgeva le mansioni di custode e che andò ad abitare in un appartamento in affitto nella villa Benassi in Via Guastalla a Cibeno. Non subì mai nessuna violenza per il suo passato come squadrista, che aveva riscattato grazie alla sua collaborazione con il movimento partigiano. Morì alcuni anni dopo di morte naturale.
Finita la guerra, un massaro del Comune di Carpi, zio dei due partigiani che volevano uccidere Poletti, mi si avvicinò e, posandomi una mano sulla spalla, mi diede del venduto. Ti confesso che a distanza di tanti anni la cosa mi brucia ancora, anche se so benissimo che fu giusta la posizione mia e del comitato. Penso anzi che per colpa di alcuni scapestrati, che la guerra aveva abituati al grilletto facile, tanti partigiani innocenti hanno poi subito anni ed anni di galera.  

 Leone Sacchi

17-04-2007

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