D. Caro Leone, io so che tu avevi dei buoni
rapporti con un noto squadrista fascista di Cibeno. So che si chiamava Poletti.
Mi tenne alla cresima e mi regalò un orologio. So che dopo la fine della guerra
andava dicendo che l’unico che non aveva avuto paura di parlargli e di aprirgli
gli occhi sul fascismo eri stato tu. Mi racconti tutta la storia?
R. Io ho conosciuto poletti nel 1940,
quando con la famiglia ci trasferimmo nel Caseificio Crotti a Cibeno di Carpi
per sostituire mio fratello Duilio, chiamato alle armi. Essendo in continuo
contatto con i soci del caseificio, che venivano a conferire il latte,
cominciai subito a fare propaganda contro il fascismo e contro la guerra. Molti
condividevano le mie idee e speravano in cuor loro nella sconfitta del nazismo
e nella fine della guerra. Fra le persone che frequentavano il caseificio c’era
anche Nando Poletti, che allora era custode del poligono di tiro di Cibeno,
diventato poi tristemente famoso per la fucilazione dei 67 internati nel campo
di concentramento di Fossoli. Era temuto
nella zona sia per il suo passato di squadrista del 1921 che per il suo ruolo
di sorvegliante pronto, si diceva, a
denunciare qualsiasi persona sospetta di propaganda contro il fascismo e contro
la guerra. I contadini dunque, conoscendo il Poletti, mi misero subito in
guardia. Il Poletti che, fra l’altro, non era nemmeno un socio del caseificio, inspiegabilmente
veniva tutte le sere a prendere un litro di latte, invece di andarlo a prendere
dal lattaio che vendeva il latte per uso alimentare.
Comunque, fatte le presentazioni, anziché
dare ascolto alle raccomandazioni che mi erano state fatte, presi il toro per
le corna ed incominciammo a parlare del fascismo e della guerra in corso,
ciascuno mantenendo le proprie opinioni. Per farti comprendere il clima che si
respirava in quel periodo ti voglio raccontare un episodio.
Di sera io
uscivo di rado. Una sera andai all’osteria prima delle 20. Faceva freddo ed io,
tutto avvolto nel mio tabarro, mi misi a sedere tranquillo. Alle 20, quando
incominciò il giornale radio con il bollettino di guerra, tutti i presenti si
alzarono in piedi, come da prescrizione. Solo io rimasi seduto. Al termine del
giornale radio, l’oste, che gestiva anche il negozio di alimentari di cui
eravamo clienti, mi disse che Poletti era solito guardare dalle fessure delle
finestre e che lui, come gerente avrebbe potuto avere delle brutte conseguenze
per non aver fatto rispettare questa norma. Io allora mi scusai con l’oste e
non andai mai più al negozio durante il giornale radio.
Il Poletti era stato anche il sorvegliante
di Verzani Fausto, uno zio di mia moglie, che era stato condannato dal
Tribunale Speciale, prima al confino e poi a molti anni di carcere per attività antifascista. Uscito dal carcere era
venuto ad abitare in Via Provinciale
Motta, dove lavorava un piccolo podere a
mezzadria. Per uscire di casa doveva ottenere l’autorizzazione del Poletti con
l’indicazione anche della durata dell’assenza.
Tornando comunque ai miei rapporti con
Poletti io debbo dire che le nostre discussioni continuarono senza conseguenze.
Una mattina,
eravamo verso la fine del 1943, trovai il Poletti in piazza a Carpi. Era in
compagnia di un mediatore di formaggi, simpatizzante fascista. Stavano
discutendo sulla battaglia in corso a Stalingrado e dicevano che la guerra era
ormai vinta. Io arrivai e dissi loro che erano degli illusi, che la guerra
avrebbe avuto una svolta negativa proprio sul fronte russo. Mentre stavamo
discutendo, mi passò di fianco un mio amico di Migliarina, un certo Santini ed
io molto imprudentemente lo coinvolsi nella discussione. Egli, che era appena
uscito dalla macelleria con pochi etti di carne acquistata con la tessera,
cominciò ad inveire contro il fascismo e contro la guerra. Io mi resi conto
subito del mio errore, ma non sapevo più come rimediare. La situazione si era
fatta pesante. Poletti gli intimò di smetterla e di andarsene se non voleva che
lo prendessero a calci nel culo. Non lo aveva ancora fatto solo per rispetto
verso di me. Egli si allontanò, ma ebbe
il coraggio, prima di andarsene di dirgli che la cosa non finiva lì. “Ci
incontreremo ancora” gli disse.
Come io avevo
previsto le sconfitte cominciarono sul fronte russo e proseguirono poi su tutti
gli altri fronti. A seguito di questa nuova situazione internazionale, della
fucilazione dei 67 deportati, dell’inasprimento della lotta partigiana, e anche per salvare la pelle Poletti cominciò a
cambiare rotta.
Nel gennaio del
44, a seguito dell’arresto di un partigiano che trasportava carne soggetta al
vincolo alimentare dei tedeschi, fu necessario nascondere alcuni quintali di
carne di maiale che era stata macellata nel caseificio Crotti e che doveva
servire a sostenere i partigiani ed i loro familiari. Il comando partigiano
ritenne che il posto più sicuro fosse la casa del Poletti al poligono di tiro.
La carne gli fu portata di sera da partigiani
mascherati ed armati con l’obbligo di custodirla per conto del movimento
partigiano. Il Poletti prese la carne, ma il mattino successivo si presentò a
casa mia e chiese di parlarmi. Mia moglie disse che io ero assente e che non
ero rintracciabile. Ero infatti ricercato dalla Brigata Nera proprio per la
macellazione clandestina della carne sottratta alle razzie tedesche. Allora
raccontò a mia moglie che durante la notte i partigiani gli avevano portato
parecchi quintali di carne di maiale, che non sapeva come fare e che temeva di
venire scoperto dai fascisti e dai tedeschi. Mia moglie si finse stupita e
chiese spiegazioni sulle ragioni per le quali si rivolgeva alla nostra famiglia
per un problema grave me che riguardava solo lui. Risposta: perché la carne mi
è stata portata con vostro carriolo e quindi voi ne sapete qualcosa.
Mia moglie
allora senza scomporsi gli ha fatto una domanda. Come hanno fatto i partigiani
a consegnarvi la carne? E lui: “Ma è chiaro. Con le armi in pugno”. Ebbene,
dice Maria, anche il nostro carriolo l’hanno preso così. Quindi se vi scoprono
diremo tutti come sono andate le cose. E speriamo che non succeda niente.” E le
cose andarono veramente bene. La carne non fu scoperta e contribuì alla
sopravvivenza dei partigiani in quel terribile inverno che precedette la
liberazione.
Durante il
periodo della mia latitanza io ebbi l’incarico di formare il Comitato di
Liberazione per le frazioni di Cibeno e San Marino di Carpi. Quando mi spostavo
avevo due staffette che mi precedevano per evitarmi degli incontri spiacevoli.
Un pomeriggio, dopo una grandissima nevicata, dissi alle staffette che volevo
andare a casa. Appena giunto davanti alla porta di casa, mi vide mia figlia
Emilia, che allora aveva appena due anni. Non fece nemmeno in tempo a dire “C’è
il babbo” che arrivarono le staffette e mi dissero di nascondermi perché la
Brigata Nera stava inseguendo due persone in bicicletta, che si dirigevano
dalle nostre parti. Fuggire era impossibile. Fuori non c’era dove nascondersi.
Chiesi a Sassi, il contadino che abitava di fianco al caseificio, di
nascondermi nel rifugio sotto alla greppia nella stalla. Entrammo nel rifugio
io e Wilson Sassi. I due che fuggivano entrarono nel cortile di Sassi. Uno
prese un’accetta, salì su un albero e cominciò a potare. L’altro entrò in casa
e cominciò a contare delle uova. I fascisti arrivarono, ma non trovarono niente
di irregolare. Cominciarono a sparare all’impazzata, spaventando i bambini. Uno
dei fratelli Sassi, che conosceva qualcuno dei brigatisti disse che lì non
c’era nessuno dei ricercati e li convinse ad andarsene. Noi due, impotenti
dentro al rifugio, vivemmo le pene dell’inferno. Io sentivo le urla dei bambini
e gli spari, ma non sapevo cosa stava succedendo. Avrei voluto uscire per
intervenire, ma ero impotente. Fu un’attesa interminabile. Il silenzio dopo la
partenza dei fascisti era terrificante. Quando finalmente uscimmo dal rifugio
io dissi a mia moglie che a casa non sarei mai più tornato fino alla fine della
guerra. Dovevo tornare alla mia base, ma a piedi non ce l’avrei fatta. Ci
rivolgemmo a Poletti che mi caricò sul suo biroccino e mi portò al mio rifugio.
Ormai era a
conoscenza di tutto e collaborava con i partigiani. Addirittura diede rifugio a
mia cognata dopo che i fascisti ci avevano bruciato il caseificio di Quartirolo
e quando mio fratello Alfredo era latitante.
Qui io potrei
terminare il mio racconto su Poletti e di come, da squadrista divenne
collaboratore del movimento partigiano. Ma per onestà intellettuale voglio
raccontare ancora un episodio. Due partigiani di san Marino, conosciuti come i
figli della Iana, verso la fine della guerra, vennero da me e mi dissero che
stavano andando ad ammazzare Poletti. Io mi opposi perché, in base alla
disposizioni del C.L.N, non si dovevano fare azioni contro chi collaborava con
i partigiani o si manteneva neutrale. A guerra finita sarebbero stati giudicati
per gli eventuali crimini commessi durante il fascismo. Convocai il comitato e
riuscimmo a fermarli. Però bisogna pur riconoscere che la giustizia che i
partigiani avevano invocato non si vide mai.
Terminata la
guerra mio fratello rientrò dalla prigionia ed io con la mia famiglia mi
trasferii al caseificio Tresinaro a Quiartirolo di Carpi. Non ebbi più molte
occasioni di incontrarlo, salvo qualche breve saluto in piazza a Carpi. So che
fu licenziato dal poligono di tiro dove svolgeva le mansioni di custode e che andò
ad abitare in un appartamento in affitto nella villa Benassi in Via Guastalla a
Cibeno. Non subì mai nessuna violenza per il suo passato come squadrista, che
aveva riscattato grazie alla sua collaborazione con il movimento partigiano.
Morì alcuni anni dopo di morte naturale.
Finita la
guerra, un massaro del Comune di Carpi, zio dei due partigiani che volevano
uccidere Poletti, mi si avvicinò e, posandomi una mano sulla spalla, mi diede
del venduto. Ti confesso che a distanza di tanti anni la cosa mi brucia ancora,
anche se so benissimo che fu giusta la posizione mia e del comitato. Penso anzi
che per colpa di alcuni scapestrati, che la guerra aveva abituati al grilletto
facile, tanti partigiani innocenti hanno poi subito anni ed anni di galera.
Leone Sacchi
17-04-2007
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