giovedì 9 gennaio 2014

LA MIA SCUOLA A MIGLIARINA


Cari ragazzi, vorrei parlarvi della mia scuola a Migliarina, che ho frequentato a partire dal lontano 1919, quando avevo 6 anni. Potete quindi immaginare che ora sono molto vecchio.
Intanto vorrei parlare dei maestri e delle maestre che ho avuto nel lungo periodo della mia vita scolastica.
Almeno per quello che mi concerne, posso dire che incutevano terrore ed erano anche dei violenti, e noi bambini quando abbiamo cominciato la scuola avevamo timore di tutto, come ha accennato mia moglie in precedenza. Eravamo impauriti ed avremmo avuto bisogno di essere coccolati per essere un po’ incoraggiati. Ci trovavamo di fronte a questi insegnanti  che ci interrogavano su cose che forse sapevamo anche, ma non eravamo in grado di rispondere per il terrore che ci incutevano.
Questo è il ricordo che ho, almeno dei primi due o tre anni della scuola che ho frequentato. Probabilmente erano anche gli anni in cui ero più timido o forse anche più debole e cagionevole di salute.
Vorrei ricordare la difficile esperienza della prima elementare. Non sapevamo neppure tenere in mano la matita e la maestra ci doveva girare la mano a forza per costringerci ad impugnarla nel modo giusto. Ho detto la matita perché non esistevano le biro e le penne avremmo imparato ad usarle molto più avanti. Con la matita ci insegnavano a fare le righe e le aste. Ma non era facile farle bene ed allora dovevamo esercitarci e farne dei quaderni interi prima di cominciare a farle in modo un po’ decente per poi passare alle prime lettere dell’alfabeto.
 Ma quando abbiamo cominciato ad usare la penna è stata una tragedia.
I  banchi erano pressappoco come questi vostri, a due posti per ospitare due ragazzi. Il piano di appoggio, nella parte superiore, era orizzontale  con due fori per i calamai e le scannellatura per i portapenne. La parte inferiore, che arrivava fino al petto dei ragazzi, era leggermente pendente.
Qualche volta succedeva che la penna, non appoggiata in modo corretto, ruzzolasse giù. Adesso può sembrare una cosa di poco conto, ma allora era un vero problema. Se cadeva in terra si spuntava il pennino e ce ne voleva un’altro e non c’erano i soldi per comprare alcunché. Immaginarsi se c’erano i soldi per i pennini. Era solo una tragedia il pensiero di dover andare a casa a dire”ho spuntato il pennino, c’è bisogno di comprarne uno nuovo”. E  poi non era neanche facile infilare il pennino nel portapenna. Ma un’altra tragedia poteva succedere quando la penna ruzzolando macchiava il quaderno, oppure intingendosi nel calamaio si tirava dietro delle impurità e poi lasciava cadere una macchia sul foglio.
Ricordo ancora una cosa che sebbene mi sia accaduta quando ero ancora bambino, non dimenticherò più finché avrò vita. La maestra di terza elementare, passando fra i banchi, si accorse di una macchia che mi era caduta sul quaderno e mi diede uno schiaffo così forte che per tutto il giorno mi rimase il formicolio sulla faccia. Ma più grande del dolore e del formicolio è stata l’umiliazione subita a causa da questa violenza, senza dire poi che ci facevano inginocchiare sui gusci delle noci o ci facevano mettere le mani sul banco e poi le battevano con la bacchetta. Questo per me è un ricordo triste. Adesso per fortuna questo non succede più. Abbiamo la fortuna di avere degli insegnanti preparati e capaci che, anziché incutere terrore ai nostri figli, cercano di coccolarli e di accarezzarli per far sì che essi possano esprimere il meglio di sé stessi. Poi adesso ci sono i nidi e le scuole materne e quando i bimbi iniziano le elementari sanno già tenere la penna in mano e non hanno bisogno di fare le aste prima di cominciare a scrivere le prime lettere dell’alfabeto.
Noi avevamo anche un’altra difficoltà da superare. Nelle nostre famiglie si parlava soltanto il dialetto. Per esempio, io vengo da Carpi, che è un paese della bassa modenese, e l’imbuto noi lo chiamavamo “dvinel” oppure “ludret”. Per noi l’imbuto era una bestia sconosciuta.
Oppure il pigiama. Noi si andava a letto con una camicia un po’ più lunga del normale, ma non usavamo quest’altro indumento. E così erano tante le parole che noi non conoscevamo e che ci inducevano a fare degli errori sia durante la lettura che nel dettato. Non erano errori di ortografia, ma proprio dovuti all’uso di una lingua a noi sconosciuta, almeno in parte.
Molti allora erano anche i bambini che addirittura non frequentavano la scuola perchè privi degli indumenti necessari, specialmente nel periodo invernale. Erano già fortunati i bambini che potevano permettersi gli zoccoli di legno. E poi tante famiglie non avevano i mezzi per poter comprare i libri e molti altri contadini li tenevano a casa a lavorare nei campi, sia per svolgere tutta una serie di lavoretti, sia proprio per dare una mano anche nei lavori degli adulti.
Ma le difficoltà non terminavano qui. A Migliarina c’era soltanto fino alla terza elementare. Per proseguire bisognava andare a Carpi e fare quindi cinque chilometri di strada per andare e cinque per tornare. Io ero un privilegiato perchè mio padre, che era casaro alle dipendenze di una cooperativa, aveva avuto la possibilità di comprarmi una bicicletta. Questo mi ha consentito di proseguire gli studi fino alla quinta elementare di giorno e di frequentare seralmente la sesta. Poi ho smesso perchè ero anelante di avere la mia libertà, ma sono stato fra i fortunati perchè i miei coetanei hanno smesso di frequentare la scuola molto prima. D’estate i bambini potevano anche affrontare il viaggio a piedi, ma d’inverno era impensabile. L’inverno di allora non era come quelli di oggi, almeno quelli che si verificano da qualche anno a questa parte. Cominciava a nevicare ai primi di dicembre, ne venivano 40 o 50 cm e si scioglieva attorno alla fine di marzo.
Per tutta questa serie di ragioni le classi superiori erano accessibili solo alle classi benestanti, mentre tutti gli altri ragazzi ne venivano esclusi.
 Ed ora vorrei fare un salto di vent’anni e parlarvi della scuola di mio figlio.
Nel 1943 mio figlio frequentava la terza elementare. Un giorno ritorna da scuola e ci dice, a me ed a mia moglie, che la maestra ha rivolto un appello a tutte le famiglie perché portino dei soldini a scuola per fabbricare i cannoni per proseguire e vincere la guerra.
Noi al nostro bambino abbiamo spiegato che i soldi per proseguire la guerra non li avremmo dati perché per noi la guerra prima finiva e meglio sarebbe stato per tutti.
Questa maestra era la presidente del gruppo fascista di Carpi ed andava a tenere discorsi in tutto il comune e nelle frazioni per esaltare la guerra ed il fascismo. Siccome la nostra famiglia era abbastanza in vista e veniva presa un po’ ad esempio, la maestra venne a casa nostra per convincerci a contribuire. Io le dissi molto esplicitamente che noi eravamo stanchi della guerra e della dittatura fascista e che prima la guerra era perduta meglio sarebbe stato per il popolo italiano perché sarebbe finita la carneficina, la morte ed anche la dittatura del fascismo. Debbo dire che non ci denunciò, come ci si poteva anche aspettare. Questa maestra, la signorina Braghiroli, ora sarà sicuramente morta, perchè era più vecchia di me. L’anno dopo questo episodio suo fratello, che era stato squadrista fascista fu prelevato dalla brigata nera e dopo due ore venne fucilato sotto l’orologio in piazza a Carpi insieme ad un gruppo di partigiani. Fra i sedici nomi dei fucilati della piazza Martiri, nel centro di Carpi, figura anche Braghiroli, il fratello di questa maestra.
A guerra terminata io ho incontrato casualmente la maestra Braghiroli. Mi ha abbracciato e stretta la mano. Non ci siamo detti niente perché nel suo abbraccio e nella stretta di mano che ci siamo scambiati si comprendeva tutta la tragedia  di quell’anima ed il dolore per gli errori commessi.


Leone Sacchi

30-05-2003

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