Cari ragazzi, vorrei parlarvi della mia scuola a Migliarina,
che ho frequentato a partire dal lontano 1919, quando avevo 6 anni. Potete
quindi immaginare che ora sono molto vecchio.
Intanto vorrei parlare dei maestri e delle maestre che ho
avuto nel lungo periodo della mia vita scolastica.
Almeno per quello che mi concerne, posso dire che incutevano
terrore ed erano anche dei violenti, e noi bambini quando abbiamo cominciato la
scuola avevamo timore di tutto, come ha accennato mia moglie in precedenza.
Eravamo impauriti ed avremmo avuto bisogno di essere coccolati per essere un
po’ incoraggiati. Ci trovavamo di fronte a questi insegnanti che ci interrogavano su cose che forse
sapevamo anche, ma non eravamo in grado di rispondere per il terrore che ci
incutevano.
Questo è il ricordo che ho, almeno dei primi due o tre anni
della scuola che ho frequentato. Probabilmente erano anche gli anni in cui ero
più timido o forse anche più debole e cagionevole di salute.
Vorrei ricordare la difficile esperienza della prima
elementare. Non sapevamo neppure tenere in mano la matita e la maestra ci
doveva girare la mano a forza per costringerci ad impugnarla nel modo giusto.
Ho detto la matita perché non esistevano le biro e le penne avremmo imparato ad
usarle molto più avanti. Con la matita ci insegnavano a fare le righe e le
aste. Ma non era facile farle bene ed allora dovevamo esercitarci e farne dei
quaderni interi prima di cominciare a farle in modo un po’ decente per poi
passare alle prime lettere dell’alfabeto.
Ma quando abbiamo
cominciato ad usare la penna è stata una tragedia.
I banchi erano
pressappoco come questi vostri, a due posti per ospitare due ragazzi. Il piano
di appoggio, nella parte superiore, era orizzontale con due fori per i calamai e le scannellatura
per i portapenne. La parte inferiore, che arrivava fino al petto dei ragazzi,
era leggermente pendente.
Qualche volta succedeva che la penna, non appoggiata in modo
corretto, ruzzolasse giù. Adesso può sembrare una cosa di poco conto, ma allora
era un vero problema. Se cadeva in terra si spuntava il pennino e ce ne voleva
un’altro e non c’erano i soldi per comprare alcunché. Immaginarsi se c’erano i
soldi per i pennini. Era solo una tragedia il pensiero di dover andare a casa a
dire”ho spuntato il pennino, c’è bisogno di comprarne uno nuovo”. E poi non era neanche facile infilare il
pennino nel portapenna. Ma un’altra tragedia poteva succedere quando la penna
ruzzolando macchiava il quaderno, oppure intingendosi nel calamaio si tirava
dietro delle impurità e poi lasciava cadere una macchia sul foglio.
Ricordo ancora una cosa che sebbene mi sia accaduta quando
ero ancora bambino, non dimenticherò più finché avrò vita. La maestra di terza
elementare, passando fra i banchi, si accorse di una macchia che mi era caduta
sul quaderno e mi diede uno schiaffo così forte che per tutto il giorno mi
rimase il formicolio sulla faccia. Ma più grande del dolore e del formicolio è
stata l’umiliazione subita a causa da questa violenza, senza dire poi che ci
facevano inginocchiare sui gusci delle noci o ci facevano mettere le mani sul
banco e poi le battevano con la bacchetta. Questo per me è un ricordo triste.
Adesso per fortuna questo non succede più. Abbiamo la fortuna di avere degli
insegnanti preparati e capaci che, anziché incutere terrore ai nostri figli,
cercano di coccolarli e di accarezzarli per far sì che essi possano esprimere
il meglio di sé stessi. Poi adesso ci sono i nidi e le scuole materne e quando
i bimbi iniziano le elementari sanno già tenere la penna in mano e non hanno
bisogno di fare le aste prima di cominciare a scrivere le prime lettere
dell’alfabeto.
Noi avevamo anche un’altra difficoltà da superare. Nelle
nostre famiglie si parlava soltanto il dialetto. Per esempio, io vengo da
Carpi, che è un paese della bassa modenese, e l’imbuto noi lo chiamavamo
“dvinel” oppure “ludret”. Per noi l’imbuto era una bestia sconosciuta.
Oppure il pigiama. Noi si andava a letto con una camicia un
po’ più lunga del normale, ma non usavamo quest’altro indumento. E così erano
tante le parole che noi non conoscevamo e che ci inducevano a fare degli errori
sia durante la lettura che nel dettato. Non erano errori di ortografia, ma
proprio dovuti all’uso di una lingua a noi sconosciuta, almeno in parte.
Molti allora erano anche i bambini che addirittura non
frequentavano la scuola perchè privi degli indumenti necessari, specialmente
nel periodo invernale. Erano già fortunati i bambini che potevano permettersi
gli zoccoli di legno. E poi tante famiglie non avevano i mezzi per poter
comprare i libri e molti altri contadini li tenevano a casa a lavorare nei
campi, sia per svolgere tutta una serie di lavoretti, sia proprio per dare una
mano anche nei lavori degli adulti.
Ma le difficoltà non terminavano qui. A Migliarina c’era
soltanto fino alla terza elementare. Per proseguire bisognava andare a Carpi e
fare quindi cinque chilometri di strada per andare e cinque per tornare. Io ero
un privilegiato perchè mio padre, che era casaro alle dipendenze di una
cooperativa, aveva avuto la possibilità di comprarmi una bicicletta. Questo mi
ha consentito di proseguire gli studi fino alla quinta elementare di giorno e
di frequentare seralmente la sesta. Poi ho smesso perchè ero anelante di avere
la mia libertà, ma sono stato fra i fortunati perchè i miei coetanei hanno
smesso di frequentare la scuola molto prima. D’estate i bambini potevano anche
affrontare il viaggio a piedi, ma d’inverno era impensabile. L’inverno di
allora non era come quelli di oggi, almeno quelli che si verificano da qualche
anno a questa parte. Cominciava a nevicare ai primi di dicembre, ne venivano 40
o 50 cm e si scioglieva attorno alla fine di marzo.
Per tutta questa serie di ragioni le classi superiori erano
accessibili solo alle classi benestanti, mentre tutti gli altri ragazzi ne
venivano esclusi.
Ed ora vorrei fare un
salto di vent’anni e parlarvi della scuola di mio figlio.
Nel 1943 mio figlio frequentava la terza elementare. Un
giorno ritorna da scuola e ci dice, a me ed a mia moglie, che la maestra ha
rivolto un appello a tutte le famiglie perché portino dei soldini a scuola per
fabbricare i cannoni per proseguire e vincere la guerra.
Noi al nostro bambino abbiamo spiegato che i soldi per
proseguire la guerra non li avremmo dati perché per noi la guerra prima finiva
e meglio sarebbe stato per tutti.
Questa maestra era la presidente del gruppo fascista di
Carpi ed andava a tenere discorsi in tutto il comune e nelle frazioni per
esaltare la guerra ed il fascismo. Siccome la nostra famiglia era abbastanza in
vista e veniva presa un po’ ad esempio, la maestra venne a casa nostra per
convincerci a contribuire. Io le dissi molto esplicitamente che noi eravamo
stanchi della guerra e della dittatura fascista e che prima la guerra era
perduta meglio sarebbe stato per il popolo italiano perché sarebbe finita la
carneficina, la morte ed anche la dittatura del fascismo. Debbo dire che non ci
denunciò, come ci si poteva anche aspettare. Questa maestra, la signorina Braghiroli,
ora sarà sicuramente morta, perchè era più vecchia di me. L’anno dopo questo
episodio suo fratello, che era stato squadrista fascista fu prelevato dalla
brigata nera e dopo due ore venne fucilato sotto l’orologio in piazza a Carpi
insieme ad un gruppo di partigiani. Fra i sedici nomi dei fucilati della piazza
Martiri, nel centro di Carpi, figura anche Braghiroli, il fratello di questa
maestra.
A guerra terminata io ho incontrato casualmente la maestra
Braghiroli. Mi ha abbracciato e stretta la mano. Non ci siamo detti niente
perché nel suo abbraccio e nella stretta di mano che ci siamo scambiati si
comprendeva tutta la tragedia di
quell’anima ed il dolore per gli errori commessi.
Leone Sacchi
30-05-2003
30-05-2003
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