Alla fine della guerra 15-18 i governi
italiani, incapaci di risolvere la crisi economica del nostro paese, aprirono
la porta alla dittatura fascista. Mussolini, allora direttore de “L’Avanti”
tradì i suoi ideali socialisti e, da uomo ambizioso di potere quale era, si
vendette al potere degli agrari e dei capitalisti italiani. Organizzò le
squadre fasciste che, ammazzando e massacrando gli oppositori e terrorizzando
la popolazione si impadronirono del potere. Nel 1924 furono svolte le elezioni
politiche che consacrarono la vittoria elettorale del fascismo. Ma parliamo un
po’ di come si svolsero.
I seggi elettorali erano presieduti dai
fascisti vestiti in grigioverde con la camicia nera, simbolo del fascismo, e
con il fez col teschio disegnato sopra. Avevano le schede già compilate e
chiedevano pubblicamente all’elettore se la lista presentata era di suo
gradimento. In caso affermativo la scheda veniva posta direttamente nell’urna
senza entrare in cabina. In caso contrario, l’elettore che voleva una scheda
bianca ed entrava in cabina, veniva
schedato, offeso all’uscita e bastonato o subito o nel giro di pochi giorni od
ore. Nei giorni seguenti tutti i giornali, ormai sotto il controllo completo
del regime, inneggiarono al grande
successo elettorale del fascismo.
Durante il
ventennio fascista era pressoché
obbligatorio avere la tessera del partito fascista ed i giovani dovevano
svolgere il servizio premilitare: un corso di tre mesi, con esame finale, che
precedeva il servizio militare vero e proprio. Alla fine del corso il podestà
di Carpi ci tenne un discorso esaltando il fascismo e dicendo che quella era
per noi l’occasione di avere l’onore di entrare nelle file del partito
fascista. Io rifiutai di ritirare il modulo d’iscrizione, dicendo semplicemente
che sapevo come e dove andare a prendere
la tessera. Il giorno dell’esame, era di domenica, io mi presentai con una
lettera del parroco di Mandrio di Correggio che sollecitava la prova d’esame
per consentirmi di andare a suonare in chiesa e fui esaminato per primo. Forse
per la raccomandazione del parroco, forse perché fui il primo, non mi chiesero
nessun documento e me la cavai senza neppure prendere la tessera del fascio. Ma
non fu così per tutti gli altri. Se qualcuno si rifiutava, mandavano a chiamare
i genitori e li minacciavano anche. Intorno al 1934 Mussolini imponeva ai
datori di lavoro di licenziare tutti i dipendenti che non erano in possesso
della tessera del fascio e così parecchi milioni di impiegati statali e di
dipendenti di aziende pubbliche e private furono costretti a prendere la
tessera per non mettere alla fame le loro famiglie. Nelle campagne questa legge
fu applicata in modo più blando. Il presidente della cooperativa alle cui
dipendenze mio padre lavorava come casaro, gli aveva detto che se non prendeva
la tessera avrebbe dovuto licenziarlo. Al ché mio padre disse che non avrebbe
preso la tessera e che si assumeva tutte le responsabilità della sua scelta. In
seguito, vuoi per la guerra in africa, o per altri avvenimenti, il
licenziamento non ebbe seguito e mio padre rimase sul suo posto di lavoro fino
alla pensione. Posso dire con una punta
di orgoglio che nessuno della nostra famiglia ha mai aderito al partito fascista
e non abbiamo mai fatto mistero della nostra avversione alla dittatura
fascista. Riconosco però che ciò fu possibile anche perché la nostra posizione
come casari godeva di un certo prestigio nell’ambiente in cui vivevamo, al pari
del mugnaio, del bottegaio o del prete. Per tutti gli altri l’opposizione al
regime costava persecuzioni, bastonate, galera e confino. E questo per le
famiglie significava fame.
Leone Sacchi Bologna 20/02/2010
Nessun commento:
Posta un commento