Durante la guerra, nel periodo 1940 – 45 ero casaro alle
dipendenze della cooperativa del caseificio Crotti a Cibeno di Carpi.
Verso la metà del 1943 presi parte alla lotta partigiana in
qualità di responsabile dell’assistenza per le frazioni di Cibeno e San Marino
di Carpi.
Verso la metà del 1944 nelle porcilaie del caseificio
iniziammo la macellazione dei maiali sottratti al vincolo dei nazifascisti. Si
trattava di animali che dovevano essere consegnati agli occupanti tedeschi per
le loro esigenze alimentari e che invece venivano macellati di nascosto e messi
a disposizione dei partigiani e dei loro familiari, che si trovavano in
ristrettezze economiche, non potendo neppure usufruire del poco che veniva
normalmente fornito dal regime con le tessere annonarie.
A seguito della cattura di un partigiano addetto alla
distribuzione delle carni l’attività fu scoperta ed il 16 gennaio del 1945 la
brigata nera, in assetto di guerra, circondò il caseificio, dove ormai non
c’erano più i maiali, ma erano rimaste le tracce della macellazione
clandestina.
Per fortuna quella mattina io ero uscito e potei darmi alla
latitanza. Rimasi nascosto fino alla liberazione, continuando la lotta
clandestina. Fui ospitato da dei contadini, che rischiavano la fucilazione nel
caso io fossi stato scoperto.
Terminata la guerra mi trasferii con la famiglia nel
caseificio Tresinaro. Questo caseificio durante la guerra era stato gestito in
proprio dai noi fratelli Sacchi ed era stato una importante base partigiana ai
confini fra Carpi e Correggio. In seguito ad uno scontro armato fra i
partigiani e la brigata nera, i fascisti ed i tedeschi rubarono e
saccheggiarono tutto e poi diedero alle fiamme l’edificio. In quel caseificio,
ricostruito alla benemeglio, fui assunto come dipendente e ci rimasi con la mia
famiglia per 16 anni, dal 1946 fino al 1962.
Finita la guerra,
nell’Italia finalmente liberata,
venne eletto il nuovo governo, presieduto da De Gasperi per la Democrazia
Cristiana e con Togliatti, per il Partito Comunista, come ministro della
Giustizia. L’Italia era uscita dalla guerra distrutta economicamente e materialmente.
Per placare gli animi e per una più rapida ripresa economica del nostro paese –
si disse allora – Togliatti promulgò il condono per tutti coloro che avevano
indossato una divisa militare. Di questo condono beneficiarono immediatamente
tutti quelli che avevano fatto parte della famigerata Brigata Nera. Così non fu
per i partigiani, che poterono usufruire soltanto di un periodo limitato per
entrare nel condono. A distanza di tanti anni io ritengo che quello fu un grave
errore, perché molte delle azioni commesse dai partigiani per cause di guerra
furono giudicate delitti civili ed i loro autori furono condannati a lunghe
pene di detenzione.
A questo proposito
voglio raccontare soltanto un episodio. Dopo l’8 settembre 43, due fratelli di
Fossoli di Carpi, figli di contadini, tornarono a casa e non risposero alla
chiamata alle armi della repubblica di Salò. A seguito di una soffiata, vennero
presi, gettati nel pozzo di casa ed uccisi là in fondo a colpi di rivoltella,
alla presenza dei genitori. Io sono ancora convinto che, in quel caso i
partigiani hanno fatto soltanto quello che doveva fare l’autorità statale prima
del condono.
In questo clima, ed
anche per riconoscenza verso quella gente che aveva ospitato me, nei momenti
terribili della repressione fascista, io aprii la mia casa ai partigiani che
erano stati condannati ad anni ed anni di galera ed erano in attesa di
espatriare, in gran parte in Cecoslovacchia.
In quegli anni fu
ospite a casa nostra un partigiano, “Michele” era il suo nome di battaglia, che
era stato condannato a 23 anni di carcere. Era a casa nostra quando ricevette
la notizia che era morto suo padre. Era disperato per non averlo potuto
salutare un’ultima volta e per non poter neppure partecipare ai funerali. Per
lenire tanta sofferenza invitammo a casa nostra sua madre, per il giorno di
Pasqua, credo dell’anno 1955, in modo da farle trascorrere un giorno insieme al
figlio. Purtroppo però proprio il giorno prima venne l’ordine di espatrio e
Michele dovette partire senza neppure poter parlare con sua madre. Quando nel
1957 mio figlio andò a studiare a Mosca si incontrò con Michele e gli propose
di parlare per telefono con sua madre. La cosa era piuttosto complicata per
varie ragioni. La madre di Michele abitava a Spilamberto ed io non avevo il
telefono. Ci si doveva servire di quello di una amica e per di più le
telefonate si dovevano prenotare ed avvenivano tramite operatore. Ovviamente,
dato il clima della guerra fredda, i controlli sui telefoni erano assicurati,
costanti e venivano effettuati da entrambe le parti.
La telefonata la faceva mio figlio da Mosca, però quando gli
dicevamo “ti passo la nonna” lui cedeva il microfono a Michele che così poteva
parlare con sua madre. Noi ci eravamo raccomandati con la mamma di Michele di non fare nomi al
telefono, ma lei, ormai anziana, presa dalla commozione cominciò a parlare dei
parenti facendone anche i nomi. Questo fece sì che la cosa non si poté più
ripetere, ma almeno una volta si erano sentiti dopo tanti anni di lontananza.
In ogni caso da quel giorno, tutte le volte che io o mia
moglie o mia figlia andavamo a Carpi eravamo sempre e sistematicamente seguiti
da una persona in borghese, sempre la stessa, che seguiva ogni nostro passo. Da
un certo momento in poi, la cosa divenne così abituale e sistematica che
arrivammo a scambiarci il saluto. Addirittura una mattina si presentò a casa
nostra, al Tresinaro, un giovane con una vecchia motocicletta, vestito da
meccanico. Ci disse che veniva per conto della federazione del Partito
Comunista di Bologna, perché andava a Mosca ed aveva bisogno dell’indirizzo di
Biagi Michele, per consegnargli indumenti e generi vari. Ovviamente noi non
cademmo nel tranello e lui se ne andò infuriato dicendo che sarebbe ritornato
con le credenziali. Si arrabbiò ma non tornò più.
Questo partigiano Michele, in realtà si chiamava Borghi
Francesco ed era originario di Spilamberto. Ritornò in patria solo dopo il
condono, intorno agli anni 60, e poté riabbracciare la madre dopo diciassette anni di lotta partigiana, prima e
di esilio poi.
Ma questo è stato
soltanto uno dei tanti partigiani perseguitati dopo la Liberazione e non è
stato neppure il solo ad essere stato nascosto a casa mia. Anzi, a questo
proposito voglio ricordare un fatto curioso. Quando mia moglie decise di andare
a trovare nostro figlio che studiava fisica all’Università di Mosca, si rivolse
alla federazione del PCI di Modena per il passaporto ed i visti. Ma a quei
tempi i nostri compagni non conoscevano bene le regole e non le fecero fare il
visto per la Cecoslovacchia. Aveva solo quello per l’URSS, ma viaggiando in
treno servivano anche i visti di passaggio. Fortuna volle che su quel treno
viaggiasse una delegazione di tessili di Torino dirette a Praga. Avevano un
visto collettivo per 16 persone e ne mancava una. La inserirono nel gruppo ed
arrivò a Praga. Ma come proseguire? Attraverso i compagni della direzione
riuscì a contattare i compagni di Radio Praga, fra cui alcuni che erano stati a
casa nostra. La accolsero a braccia aperte e le offrirono il biglietto aereo
per Mosca, dove finalmente poté riabbracciare il figlio.
A proposito di
ingiustizie come non ricordare che in quegli anni, anche andare a studiare a
Mosca era un reato? Mio figlio era iscritto ad ingegneria a Modena e come
studente universitario godeva del rinvio del servizio militare. Come studente
dell’Università di Mosca non usufruiva più di tale diritto e fu denunciato
per renitenza alla leva. Il procedimento
a suo carico rimase in piedi anche dopo il riconoscimento della sua qualifica
di studente, a seguito del viaggio a Mosca del presidente Gronchi. Conclusione:
mio figlio fu costretto a rimanere a Mosca per tutta la durata degli studi,
senza mai rientrare in Italia per non farsi arrestare e compromettere il completamento
del corso di laurea.
Alla fine, nel 1962, a laurea conseguita, fu poi assolto dal
Tribunale militare di Bologna ed anche esonerato dal servizio militare.
Ecco! Ora siamo all’ultimo atto di questa parabola storica.
Oggi a quei traditori della Patria, che si facevano chiamare Brigata Nera della
Repubblica di Salò, si sta per concedere
un riconoscimento che li equipara ai partigiani. E del resto non possiamo
stupircene, visto che li abbiamo addirittura portati al governo col voto
popolare!!
19-02-2005
19-02-2005
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